venerdì 23 luglio 2010

Belpasso, 23 Luglio 2010

Da bambini, alle elementari, dopo aver scritto in bella grafia “Belpasso”, seguito dalla data del giorno, la maestra dettava le nozioni fondamentali sul paese.
Nel 1988, a quanto risulta da un quaderno logoro di allora, Belpasso doveva essere un ridente paese alle falde dell'Etna (chi non ha sentito con sicura certezza questa definizione almeno una volta?) di undicimila abitanti. 
Vi si coltivavano mandorli, ficodindia, ulivi, viti, alberi da frutta. 
Aveva impianti industriali nel settore dei dolciumi (e per darcene prova si andava in visita di istruzione agli stabilimenti Condorelli, cui si accedeva da un vialetto alberato, a destra della sala ricevimenti) e in quello molitorio, che mai avremmo capito essere le cave in cui si estraeva e si macinava la pietra lavica.
La maestra dettava con voce limpida per farci distinguere bene sillabe e doppie:
“È’ stato fondato dopo il terremoto del 1693 che aveva distrutto Fenicia Moncada, il precedente paese, che a sua volta era stato costruito dopo la distruzione di Malpasso nel 1669.
Il simbolo del paese è la Fenice, un uccello mitologico capace di rinascere dalle proprie ceneri, proprio come aveva fatto il paese in più di un’occasione.”
La descrizione proseguiva con i riferimenti a S. Lucia, patrona del paese, alle principali feste, al noto carro armato del miracolo, quello del “compromesso storico tra Matrice e S. Antonio”.
Perché, mentre si iniziava a capire di greci e di romani, la mia maestra (e non ho motivo di dubitare sulle altre) sentiva il bisogno di parlarci di viti e di ulivi, di Fenicia Moncada e di Condorelli?
Il dettato, certo, aveva la sua funzione didattica, ma avrebbe potuto dettare un brano di letteratura per ragazzi o la storia dello sbarco dei Mille.
Non era ancora di moda l’attuale parola d’ordine dell’attenzione per il territorio, né si avvertivano venti autonomisti.
Lo faceva perché la scuola che aveva frequentato e nella quale trenta e più anni dopo insegnava, era molto attenta alla geografia. E non solo a quella fatta con le cartine mute o con la carta velina su cui riportare confini monti e fiumi, da colorare poi sul quaderno. 
A lei interessava darci delle coordinate per orientarci.
Insegnarci gli strumenti utili, stimolare l’osservazione, instillare un senso di appartenenza e di identità.
Facendoci conoscere in astratto il paese, ci dava le chiavi di lettura necessarie per comprenderlo nel concreto: il suo calendario (le feste e le stagioni), i suoi abitanti ( i mestieri, le ricchezze e le povertà), i suoi tesori (la terra, il paesaggio).

Sarebbe un esperimento interessante oggi, mettere insieme le pagine di quei quaderni belpassessi, le varie generazioni di temi, i dettati, i pensierini, per annotare le evoluzioni e scoprire variabili e costanti.

Non so, credo di sì tuttavia, se ancora oggi i bambini di Belpasso apprendano questi dati. 
Non quelli del 1988 ovviamente, anche perché il quadro è profondamente mutato.
Certo ancora adesso si inizierebbe scrivendo il nome Belpasso e la data. E poi?

È ancora ridente il paese? È meglio parlare di cittadina? Si è trovato un modo meno astruso per dire alle “falde” dell’Etna?
Olio, vino, mandorle, fichidindia, sono ancora frutti di questa terra? E, se sì, le loro produzioni sono aumentate come il numero degli abitanti? Le chiuse, gli appezzamenti che dai margini del quartiere S. Antonio arrivavano alla Dais devono produrne ettolitri e tonnellate se servono così tanti capannoni agricoli. No?
Torrette, muri di pietra a secco, terrazzamenti, tendono a scomparire. Ciò che un tempo era una risorsa per l’agricoltura, senza i quali era impossibile coltivare i terreni pietrosi, oggi potrebbe esserlo ancora, anche per il turista, per cultura, paesaggio, tipicità.
Le falde e le pendici, i fianchi delle colline sono sventrati e feriti dall’incapacità di programmare e dagli appetiti dell’oggi. I pochi resti degli insediamenti storici rimangono sepolti da rovi e lentisco, quando non spariscono sotto i denti delle ruspe.
Perfino la scacchiera di cui tutti si gloriano, amministratori in testa, si sta sfilacciando sempre di più, perdendo il suo senso, se non razionale, quanto meno estetico.
Condorelli di certo non è più in quel piccolo stabile a ridosso dei magnifici saloni. Ma oggi i saloni sono un supermercato e in quel vialetto, ne sono quasi certo, nessuno raccoglie più i funghi che spuntavano ai margini della stradella. 
Spero possa ancora sentirne il profumo il cavaliere.
Le cave continuano a estrarre e a macinare pietra, forse lo fanno anche dove non potrebbero, però grazie a loro quella che chiamano la città del tempo ritrovato, e che invece è un centro commerciale, è sorta, con tutta la sua imponenza. E ca va sans dire, la città cresce.
S. Lucia esce ancora due volte l’anno dalla sua cameretta per i tanti cittadini che la acclamano, ma è curioso che dopo trecento e più anni di protezione su questo paese, non sia ancora riuscita nel miracolo di aprire gli occhi ai suoi devoti.
In vent’anni il ridente paese è diventato la città che cresce. Ve ne siete accorti?

giovedì 22 luglio 2010

Sipario


Inauguro con molto piacere e con una certa emozione questa rubrica dedicata a Belpasso.

Ringrazio la redazione di Sciara che, nella persona di Antonino Recupero, mi ha proposto di mettermi alla prova scrivendo del paese, dei suoi luoghi, delle sue storie.


Ho scelto U viulinu di Peppi come titolo, perché ha in sé il principio che mi sono posto accettando la proposta. 
Peppi, naturalmente, è quel Giuseppe Vitaliti, rimasto nelle scarsissime cronache e nella leggenda paesane come Peppi i’ Mappassu *.
La sua foto mentre suona il violino è nell’immaginario dei belpassesi, quanto un’immaginetta sacra.
Della sua vita si sa poco e quel poco è bastato a renderlo personaggio. 
Di lui si ricordano pochi aneddoti, dai quali emergono la semplicità dell’uomo, la schiettezza (“Ma ricotta brigaderi"), la sensibilità, il disagio della vita per strada.

Doti che, non possedendo in quell’abbondante misura, proverò almeno a descrivere.

Il violino, che forse non sapeva suonare, è simile alla penna che presuntuosamente ho scelto come strumento. Altrettanto versatile, che è capace di incantare, così come di irritare.

Farò del mio meglio per non annoiarvi. Tra tutti gli esiti possibili credo sarebbe il meno buono.
Con una frequenza regolare, spero bimensile, la rubrica si occuperà dunque di storie belpassesi, correnti e passate, grazie al contributo dei pochi amici che con me hanno il piacere di chiacchierare e di condividere questo stravagante interesse per il ricordo, per la memoria e la trama di rette e di traverse intersecate da più di trecento anni.

Trattandosi di un rubrica ospitata da un blog sarà possibile pubblicare dei commenti. Non è mia abitudine sottoporli a vaglio preventivo, dunque saranno pubblicati automaticamente. 
Spero possano rivelarsi uno strumento utile e non una sgradevole occasione per fare pollaio. Tenetevi dentro i limiti del buon senso e della civile conversazione.

Buona lettura.


* "Una sera Peppi aveva fame, come sua abitudine vide che la porta della dispensa di proprietà di Don Pasquale Crispino, era aperta senza pensarci due volte entrò e siccome all'interno vi erano tantissime pezze di formaggio  ma soprattutto ricotta, cominciò a mangiare , Don Pasquale sentendo dei rumori e credendo di essere derubato, chiudette la porta a chiave e scappò di corsa a chiamare i carabinieri, ma il brigadiere arrivato sul posto , per lo stupore di tutti, trovò Peppi imbrattato di ricotta che mangiava, il quale sorridendo esclamò " Ma ricotta, brigaderi."  (http://web.tiscali.it/prolocobelp/peppi%20mappassu.htm)