giovedì 26 gennaio 2012

Calcio totale


Ben prima che Zeman incantasse con la sua filosofia tattica, a Belpasso il gioco del calcio era già totale.

In quell’epoca in cui il pistacchio era solo un gusto di gelato (di cui diffidare se il colore virava troppo al verde Kawasaki) e Totò Schillaci secondo solo a S. Lucia quanto a numero di devoti, i nostri pomeriggi, fatta la tara ai compiti (non sempre né per tutti) erano interamente dedicati al gioco, dunque per l’assenza di altri diversivi domestici oltre la televisione, alla strada.

Principe dei giochi, senza timore di banalizzazione, era il pallone.

Novantanove volte su cento il virus si contraeva in età scolare e si saldava al tifo. Così insieme a un cognome, ci si trovava costretti ad avere anche una squadra da tifare.
All'epoca dei fatti si ignorava senza alcuna vergogna l’esistenza del calcio Catania, quasi tutti i bambini di mia conoscenza dividevano i loro favori tra le blasonatissime Juve Milan Inter.
Maradona rendeva tifabile il Napoli.
Vicende mitologiche mai del tutto chiarite portavano alcuni a interessarsi del Como (un anonimo santantonese), della Fiorentina, del Cesena, della Roma (con questi ultimi compagni di fede mantengo ancora la fratellanza).

Il tifo si concretizzava, prima ancora che nell’imitazione atletica dei campioni, nel non meno aerobico gioco delle figurine, naturalmente Panini, da collezionare e non sia mai scambiare, piuttosto da usare come posta al gioco da’ ciuscia, che genitori e nonni chiamavano puspra.
Non ho mai saputo, e come tanti porterò il segreto oltre tempo massimo, per quale motivo il verbo designato per indicare la vincita fosse pulicare, o le origini di quel regolamento non scritto che prevedeva ciusciati, manati e sauti a’ buffa.
Di sicuro il ricordo, indissolubilmente saldato al terrore di vedersi sequestrato il bottino da insegnanti, educatori e catechisti vari, mi intenerisce ancora.

Superato il primo biennio delle elementari, durante il quale si era esercitata l’arte del pulicare su tutte le superfici praticabili, diventava più semplice ottenere il permesso per uscire in strada già nel primissimo pomeriggio. O per sentirsi meno in colpa se si evadeva dai domiciliari causa compiti.

A onor del vero il pallone era solo una delle discipline ammesse, certo la prediletta, ma necessitava appunto di un pallone e non sempre si poteva contare su un Super Tele o affini.
In ogni caso nascondino, stregacomandacolore, sciancateddu erano palliativi per tossici in crisi d’astinenza, tentativi di coinvolgere anche il sesso femminile o diversivi per temporeggiare un po’ e non turbare, troppo, la quiete pomeridiana do' menziornu e le relative pennichelle di lavoratori turnisti o anziani, uno il temibilissimo u’Vecchiu, munito di coltello o chiodo, si distinse per aver inviato nel paradiso dei palloni numerosissimi esemplari.

Rette e traverse, per lo meno fino alla VI (quasi l’intero quartiere S. Antonio di levante e di ponente), data l’ancor scarsa pendenza, pullulavano di goleador.
Altri campetti improvvisati, più o meno stabili, si realizzavano nelle campagne adiacenti (bastavano poche decine di metri allora, prima che la città crescesse) con pratiche linee laterali in basalto lavico e porte di lapazze, le assi sottratte ai cantieri edili, nella cui costruzione si cimentava con indiscutibile maestria Turi Dance, incontrastato maestro della carpenteria ludica.

Il tempo dei campetti in erba sintetica, del calcio a cinque o a sette era ipotetico e fantascientifico, e l’appuntamento ufficiale più importante era il torneo comunale che si teneva sulle mattonelle di cemento di Piazza Duomo, con pendenza assai poco regolamentare, opportunamente ingabbiata dalle reti di protezione. Si trattava di un torneo tra quartieri, se non ricordo male, il cui contorno di zuffe e scommesse clandestine, non favoriva la presenza di bambini, comunque numerosissima e attiva nel recupero palloni.


Ma si giocava un po’ dovunque: nel parcheggio interno delle scuole medie, prima e dopo la sirena di entrata e uscita, a ridosso della sua palestra in un’indegna pietraia; nelle vicinanze del botteghino in cui si riequilibravano con scarpette, banane, fragoline sintetiche gli zuccheri persi.
E ancora, nelle poco trafficate strade della Silva; ovunque al Campo fiera, al collegio Sava (i più grandi d’età e i fortunati) dove la disciplina, per via del fondo sabbioso tendeva al beach soccer; in piazza Duomo davanti alla scuola o dentro il cortile della scuola elementare Plesso Centro oppure, trasferta temibilissima, in Via Capuana.

Per confronti numericamente significativi c’era sempre il vecchio e assai malandato S. Gaetano, le cui porte sempre spalancate evitavano la fatica e il riscaldamento di scavalcarne le recinzioni e nei cui spogliatoi campeggiava l’ormai leggendaria scritta: “Cu rumpi pava e cu tumma a’ vo’ pigghia”, riferita ai danni da pagare e ai palloni da recuperare.

Campi di quartiere e incroci erano terreni di gioco a rigida compartimentazione territoriale, in cui cicciottelli con serie dipendenze da gelati e merendine (me medesimo tra i tanti) facevano da cornice a talenti purissimi che in non pochi casi accedevano alle giovanili locali o ai prestigiosi vivai di Giarre e Acireale.

Il club cui immeritatamente ero iscritto aveva come terreno di gioco l’asfalto ad angolo tra la III Traversa e la I Retta Levante, con rarissime incursioni sulla I Ponente, dove però si formava un rinomato laghetto lungo dieci metri e largo tre e che dunque riservavamo alle discipline acquatiche.
Il gioco era assai evoluto e non solo per un miope occhialuto di posizione come me.
Oltre alla variante comune della “porta romana”, un portiere unico privo di qualsiasi talento che non fosse lo spirito di sopravvivenza, che veniva usato per lo più come palo mobile e contro cui giocavano due squadre; l’elitario calcio tennis, destinato ai piedi fini o un gioco a eliminazione, sempre a porta unica, in cui si poteva calciare solo di prima, detto a’ vvolu.

Una certa appetibilità avevano le vie i cui incroci erano dotati dall’Acquedotto Bosco Etneo di fontanelle, quasi mai a secco, dispensatrici di ristoro gratuito.
Anni dopo l’alimentari a cento metri avrebbe iniziato a vendere un liquido quasi salato detto ghetorei, ma la rispettabilità della fontana restò intatta.
La nostra fontanella era a suo modo unica.
In primis perché sovrastata dai rami di un grande e generoso (lui sì, la signora Lucia padrona dell’orto un po’ meno) fico; poi perché tra gli avventori che venivano ad approvvigionarsi di acqua ricca in vanadio e sali minerali, c’era niente poco di meno che Gilommu, figura quasi mitologica del pantheon belpassese, illusionista errante, che tutti chiamavano mago, capace di estrarre dalle nostre narici penne, cucchiaini, palle pazze.
All’arrivo del suo Mercedes l’ “alt gioco” era obbligatorio. Il gioco sospeso come quando passava una macchina o se ne schiantava una nei pressi dopo frenata e botto e si correva a vedere l’effetto che fa.
Con Gilommu, in un istante, da piccoli giocatori ci trasformavamo in piccoli giocati, dalla sua bravura, dalla sua barba biblica, dai suoi occhi felici di distribuire a noi, quasi e quasi tutti innocenti, meraviglia.
Quando la primavera iniziava a farci presagire l’estate, e già Giannini(*cfr. Commenti) e Bennato facevano da colonna sonora alle nostre partitelle in attesa delle notti magiche, la fontanella integrava la sua funzione primaria, trasformandosi in doccia, unico rimedio alla calura insieme agli indimenticabili gelati di don Paolo, gelataio itinerante automunito, che preannunciava con radio al massimo volume e fischietto fuori ordinanza il suo arrivo.
“Sono stato il primo, come la Ferrero”, si leggeva sulle fiancate del suo furgoncino.
Coni o briosce farcite, panna, pochi gusti, sempre un po’annacquati.
Tutti con lo stesso sapore.
Il buonissimo.
(Ringrazio Car+C+8 Design per l'immagine e la natura per avermi dato occhi migliori dei piedi)