giovedì 2 dicembre 2010

Oggi si macella

Alcune botteghe esponevamo il cartello il martedì, altre il giovedì, a rotazione più o meno tutte.
Oggi si macella, a caratteri rossi su fondo bianco.
Il messaggio era rivolto ai ghiotti intenditori (un tempo invece ai più miseri tra i poveri) e stava a significare che insieme ai tagli freschissimi di prima scelta, al tritato, allo stufato, erano disponibili succose e sanguinolente interiora: fegato, trippa, cuore, testicoli, polmone, reni.
Le macellerie, come altre categorie commerciali paesane quali il barbiere, il parrucchiere, il panificio, rispondono a criteri di scelta particolari.
Non si diventa semplicemente clienti, ma, come avviene per una fede religiosa o per un convincimento politico, affiliati in maniera esclusiva, permanente e definitiva.
Addirittura eterna se si pensa che il titolo di associati a una determinata bottega si tramanda di generazione in generazione: impensabile affidare i propri capelli a forbici diverse da quelle che hanno tagliato i capelli di tuo padre, e che tagliarono quelli di tuo nonno.
Figurarsi per il tritato di primo taglio o per la salsiccia.
Per le macellerie, specie negli sgargianti anni Ottanta, il vincolo tra cliente e macellaio era, letteralmente, di sangue.
Servirsi in una o in un’altra costituiva un marchio, un distintivo da sfoggiare durante scampagnate e luculliani arrusti e mangia, grigliate rituali che si celebrano per le occasioni speciali. Cioè sempre.
La descrizione di questa liturgia meriterebbe un capitolo a parte.
Due sono le modalità di festeggiamento a denominazione di origine controllata: a’ mangiata e l’arrusti e mangia.
Spesso accorpabili, questi due momenti caratterizzano i principali appuntamenti festivi: 25 aprile, 1° maggio, Pasquetta, Ferragosto; sono imprescindibili per inaugurare una costruzione in compagnia di carpentieri e maestranze; irrinunciabili in caso di campagna elettorale, quando si può perfino reiterare; assai consigliati per addii al celibato (soprattutto se si tiene a perderlo il celibato); raccomandati per compleanni, scampagnate, incontri associativi.
Andare a mangiare una pizza, bere una birra, sono eretici palliativi.

Le ricordo affollatissime, non era ancora tempo di supermercati e centri commerciali dove comprare tutto (dalla soletta alla sottiletta) bianche di marmi e piastrelle, illuminate a giorno per far risaltare il rosso delle carni esposte.
Il gusto estetico, ovviamente, tendeva al truculento: c’era chi esponeva interi quarti appesi, chi non riusciva a resistere all’ostensione della testa del sacro maiale accessori inclusi, chi addirittura il maiale intero avvolto di festoni e luci natalizie.
Il picco delle meraviglie però era senza dubbio l’enorme pelle di vacca pezzata, bianca e nera, stesa sulla parete alle spalle del bancone di Orazio Santonocito, titolare dell’omonima macelleria.
Era la macelleria più grande e rinomata del quartiere S. Antonio. 
Non era l’unica certo, Via Roma poteva contare sulla media di una rivendita ogni tre quattrocento metri, ma quella ad angolo con la VII Traversa aveva oggettivamente un pubblico di fedeli ed estimatori assai vasto.
Il “buonasera don Pippino” rivolto a mio nonno, il cui dito stringevo con la mano, era un appuntamento settimanale imperdibile.
L’acquisto della carne necessaria al pranzo di famiglia domenicale, un momento quasi iniziatico.
L’approvvigionamento prevedeva: maiale e manzo per lo stufato con le patate, da cui trarre anche il sugo per la pasta, cento/centocinquanta centimetri di salsiccia in nodi, tritato di secondo taglio per il falso (falsissimo)magro, fettine per le donne e i bambini, costolette di maiale per secondo e puntine di maiale (i pittinicchi, sia lode a Dio creatore) per dessert.
Al bisogno, e secondo stagione o festività, si poteva integrare l’apporto proteico con lardo, gelatina e salsicce essiccate.
Le donne avrebbero messo mano all’alba alla preparazione dello stufato, impastato il tritato con uova, prezzemolo e pan grattato, messo al forno le salsicce con le patate. Ma la scelta, previa rapida consultazione, e l’acquisto erano di stretta competenza maschile e la macelleria, al pari del barbiere, era territorio per uomini. 
Quella macelleria sicuramente.
Accompagnando padri, zii o nonni si apprendevano gli elementi necessari per tramandare colesterolo, trigliceridi e ipertensione di generazione in generazione.

“Vorrei mezzo chilo di costata, ma di quale animale non me lo ricordo.”
“Giovanotto, qua abbiamo vitello o maiale, quale animale e animale... “.
“Non lo so, torno a chiederlo a mio nonno”.
L’animale era la “trinca” e le risate del macellaio Consoli, grasse ma indulgenti, le ricordo ancora.
Mio nonno mi aveva commissionato l’acquisto di mezzo chilo di fettine e io avevo dimenticato la parola trinca, credendola chissà quale ignoto mammifero. 
In quell’occasione, a prezzo di rossa vergogna e sberleffo, appresi che la trinca era una parte, la costata della lunga, e non una bestia macellabile.
Anni dopo avrei iniziato a chiamarla roastbeef.
(Ringrazio Car+C+8 Design per l'immagine)

venerdì 5 novembre 2010

La festa dei morti

Comando supremo, 4 novembre 1918, ore 12.
La guerra contro l'Austria - Ungheria che, sotto l'alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l'Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta.[…]

Per qualche anno, da bambino, avevo imparato a memoria il testo integrale del Bollettino della Vittoria.
Insana e patriottica passione che condividevo con Antonino Recupero, a quanto mi risulta.
Entrambi (prima lui, l’anno dopo io) fummo incaricati di leggere il testo durante la cerimonia annuale davanti al Sindaco e alle autorità. Inderogabili leggi non scritte prevedevano che la lettura fosse affidata a un pargolo in divisa scout. Probabile retaggio delle cerimonie del Ventennio in cui la lettura era affidata a un balilla, o forse perché la voce di un bambino in pantaloni corti a novembre, vibra come quella di Diaz nei vecchi altoparlanti delle radio a valvole.
Due decenni dopo, posso finalmente confessare che invidiai tantissimo Antonino.
Lui aveva letto in maniera marziale davanti al bronzeo monumento della XII Traversa, io dall’ambone della Chiesa Madre, come una qualsiasi preghiera dei fedeli, dato il nubifragio che aveva impedito la cerimonia in plein air.
La cerimonia al monumento dei caduti, forse per i programmi musical-risorgimentali della maestra Spina che contemplavano Mameli, Piave mormorava e Bella ciao, o per la lettura intensiva del libro Cuore Giunti che mi toccò in regalo, era molto emozionante.
Insieme ai pennarelli turbo color Giotto che i miei nonni mi regalavano, erano queste due cose a farmi pensare ai Morti e alla morte.
Non era tradizione della mia famiglia ricevere regali in quell’occasione.
Non avevamo morti che potessero mandarceli. Infatti iniziai ad averli da mio nonno materno quando morì suo padre e smisi di riceverli quando morì lui.
La prima settimana di novembre era interamente consacrata ai morti.
Il resto del mondo creato si accontenta del 2, commemorazione dei defunti, e del 4, anniversario della Vittoria, oggi anche del 31 ottobre, per via di Halloween, esempio concreto di come l’occupazione statunitense possa dirsi compiuta e irreversibile.
Anni fa, invece, i Morti, erano una festività composita che al suo interno aveva storie, sapori, concetti, lontananza, dolore, ricordo. Già dagli ultimi giorni di ottobre il clima risentiva di quest’atmosfera di festa malinconica.
I bar e le nonne si cimentavano nella preparazione delle ossa dei morti, biscotti onestamente appena commestibili, la cui durezza è proverbiale, ottimi come corpi contundenti nelle piccole risse tra bimbi.
Paese pirotecnico, dunque affezionato a botti e polveri piriche, Belpasso apriva la vendita di minerve, svedesi, miniciccioli e assicutafimmini (sic!) proprio ai primi di novembre, complici i due giorni di festività scolastica. Le operazioni di artiglieria si concludevano due mesi dopo, per l’Epifania, che notoriamente tutte le feste porta via.
Il cimitero, paradossalmente, prendeva vita proprio in quei giorni.
I sepolcri, per tutto l’anno aridi, polverosi e con i fiori rinsecchiti, brillavano per via delle grandi pulizie d’occasione e odoravano di fiori freschi.
I fiorai assecondavano il desiderio di riparazione dei tanti che si sentivano in obbligo di spartire mazzetti a zii, nonni, avi, cui per tutto l’anno al massimo avevano speso un “bonamma” o qualche “eterno riposo dona a loro Signore.” . E amen.
Le strade vicine al cimitero, già a partire dall’angolo tra Via Roma e u’ Stratuni (la IV Traversa lato di levante) erano punteggiate dai secchi azzurri colmi di crisantemi bianchi o gialli, gonfi come petti di colombi, che venditori improvvisati organizzavano per contendere clienti ai fiorai.
Poco oltre le colonne bianche del cimitero, a mo’ di altare della patria in sedicesimo, i necrofori posizionavano una bara vuota e la corona di fiori del Comune e dell’Associazione nazionale reduci e combattenti, in memoria del milite ignoto (nel caso specifico assente più che ignoto). Mi stupivo sempre del fatto che moltissime persone staccavano un fiore dal proprio prezioso mazzo per omaggiare una bara vuota. Oggi, sapendo che l’omaggio andava alla memoria e al ricordo dei molti mai più tornati dal loro unico viaggio fuori dalla Sicilia, mi commuovo.
Allora, invece, assolta rapidamente la distribuzione di preghierine davanti a ovali ceramizzati che ritraevano parenti mai conosciuti, ma cui pian piano si imparava a voler bene, l’attrazione principale erano i due grandi ossari poligonali. I più temerari si avventuravano a sbirciare affacciandosi dal foro di apertura, da cui nitidamente si vedevano cataste di crani, e ossa assortite.
Altrettanto gettonata nell’hit-parade dark di noi fanciulli erano i sepolcri contenenti frasi, simboli e richiami horror del tipo: "Ricordati che devi morire", "Tutto finisce", "Fummo come voi sarete come noi". Simpatici memento mori che, ovviamente, abitavano i nostri incubi per i giorni successivi.
"Due cose belle ha il mondo: amore e morte". E non serve essere romantici per cogliere il senso del pensiero di Leopardi.
Sono stati versati litri di inchiostro e pubblicate centinaia di pagine sul rapporto tra Sicilia e morte, sul lutto, sul concetto di memoria dei defunti nella società rurale.
In effetti è difficile trovare altrove un legame tanto atipico tra il mondo dei vivi e quello dei morti, così intriso di greci di arabi e di magia.
La cesura del passaggio non sembra mai del tutto completata, la separazione fisica incide le carni dei vivi e si protrae nel lutto perpetuo e nel nero delle vesti, o dei bottoni per uomo, ormai quasi scomparsi, da appuntare al bavero della giacca.
Tutto sommato era una delle feste più belle.
Con generosa affettuosità, erano quelli che erano andati via a invitarci e a spedirci doni.
"Celeste è questa
corrispondenza d'amorosi sensi,
celeste dote è negli umani."
(Ringrazio Car+C+8 Design per l'immagine)

martedì 5 ottobre 2010

Il Museo etnografico "Giuseppe Sambataro"

Nella casa d’angolo tra la IV Retta Levante e la XX traversa, la più breve della scacchiera, accanto a un portale di pietra ben piantato e sovrastato da un orso, c’era un cartello giallo con una scritta nera che presentava a nome del Comune di Belpasso, con tanto di Fenice d’ordinanza, il Museo etnografico Giuseppe Sambataro.
Lo smarrimento dei piccoli alunni delle elementari lì menati in visita di istruzione, davanti alla parola arcana “etnografico” era puntualmente risolta a favore di un’interpretazione vulcanica dell'offerta museale. A Belpasso, paese alle pendici dell’Etna, un museo poteva essere solo etnografico.

Invece, varcato il portone, accolti dal maestro di cerimonia, quel Venerando Bruno mai abbastanza compreso, mai abbastanza rimpianto, si apriva un mondo.
Filosofeggiando un po’, si apriva il Mondo, se, come pare, nella parte c'è il tutto.
Frammenti e selci del neolitico aprivano una polverosa rassegna che, passando per la Magna Grecia, Roma e gli Angiò, arrivava ai labari dei fascisti.
Diecimila e più anni racchiusi in una passeggiata tra mensole e scaffali accompagnati dalle maestre e dal padrone di casa.
Sì perché il museo, pur essendo comunale era, nei fatti, la collezione privata di Venerando Bruno, pazientemente messa insieme in anni di scavi privati, di camminate per mercatini delle pulci, di scampagnate nei dintorni del paese.
A noi cuccioli d’uomo, allevati a pane e catechismo, interessavano soprattutto le armi, i proiettili, le schegge di granate e di bombe, anche perché il buon anfitrione ci spiegò sottovoce in quali campagne avremmo potuto trovarle per le nostre giovani collezioni.
Il museo fu inaugurato proprio in quegli anni, nel 1988 e, nel disinteresse colpevole delle amministrazioni che si sono succedute, ha chiuso il suo portone nel 1994.
I rapporti istituzionali tra il fondatore e il Comune e gli enti locali sono stati assai tesi, basti pensare che in sei anni la struttura museale ha potuto contare su un finanziamento complessivo di otto milioni di lire, nonostante fosse l'unico organismo museale ad aver avuto un decreto speciale del Presidente della Regione Sicilia per il numero di manufatti e per l'importanza della collezione stessa.
Complice un’accertata spigolosità di carattere di Bruno, unita alla monumentale ignoranza di sindaci e assessori dell’epoca, quel coraggioso tentativo di erigere una casa della memoria si trasformò in doloroso contenzioso.
Promuovere la cultura e l’interesse verso la storia, le parole d’ordine del Bruno pensiero, mal si accordavano con gli anni ruggenti del rampantismo politico economico mafioso di fine anni ottanta e così, in poco tempo reperti e manufatti finirono inscatolati a data da destinarsi.
Nove anni dopo la scomparsa del professor Giuseppe Sambataro, cui gli stessi negligenti politici di allora oggi tributano ipocriti onori, scompariva anche il museo a lui dedicato.
In una bella intervista così parlava di lui Venerando Bruno: “Spesso diceva: <>. Paradossalmente questa mancanza aveva permesso che il nostro paese rimanesse pulito. Mentre gli altri (paesi) avevano i territori devastati, noi potevamo ricostruire il passato… pare avesse temuto quello che poi effettivamente sarebbe successo.
Il museo è un omaggio a lui stesso, un omaggio a un belpassese che ha riscoperto alcuni personaggi importanti della nostra storia. E’ quasi un dovere intitolarlo al massimo studioso della cultura belpassese.”.
(Intervista a Tony Carciotto, www.terraemalpassi.splinder.com/archive/2008-01)
E a proposito dell’inderogabile necessità di riapertura del museo:
“Belpasso ha bisogno del museo, ma questo non può che essere solo uno degli aspetti su cui porre l’attenzione tra tutte le possibili sfaccettature di questo tipo di tematica culturale. Oltre al museo, di molte altre cose hanno bisogno i belpassesi per sentirsi in pace con la propria storia. Esso non può essere la nostra unica testimonianza del passato a meno di non renderlo più complesso e più completo. Si pensi alle ballate, alle canzoni, al teatro, alle aree archeologiche alle importantissime aree di interesse ambientale. Sono troppe le cose importanti per essere tutte compendiate da un museo. Allo stesso tempo questo può essere un importante punto di partenza per tutte quelle risorse già da troppo tempo trascurate.” (cfr. id.)

Il museo etnografico Giuseppe Sambataro non ha mai riaperto i battenti.
Le casse di legno che contengono le sue spoglie somigliano sempre più a sarcofaghi polverosi.
L’opera febbrile di Venerando Bruno si è sopita insieme a lui poco tempo fa.
Altri soggetti (individuali, ProLoco) timidamente, hanno raccolto il testimone del cercatore e nel solco dell’insegnamento empirico del maestro scomparso, vanno per muri a secco, timpe e vavvacani, in cerca di memorie del tempo.
Il pensiero affettuoso va a Bruno, nel ricordo di ciò che ha rappresentato anche per me e con la certezza che alcuni dei suoi semi siano caduti sulla terra fertile.
L’augurio invece va a quei virgulti che hanno imparato, volendo bene a lui, a voler bene a questa terra, al tempo, alla storia.

(Ringrazio Car+C+8 Design per l'immagine)

martedì 7 settembre 2010

Bazar Motta

Il primo approdo sicuro, dopo la lunga estate di sabbia e mare, era per molti bambini, me compreso, la libreria Motta.
In un calendario scandito dai nove mesi della scuola e dai tre estivi, settembre significava l’inizio di un nuovo giro di ruota, e conseguentemente la fila interminabile per ordinare i libri per il nuovo anno scolastico.
Al tempo erano due le possibilità. Lo Scaffale, cartoleria della XVI traversa, per quelli che abitavano nei pressi e per gli affezionati, e appunto la libreria Motta di via Roma.
A chi è abituato a frequentarla oggi, questo breve ritratto potrà sembrare la visione distorta di uno scrittore ubriaco in preda ad allucinazioni.
Ma all’epoca la libreria Motta non era una libreria. Era ciò che Giovanni Motta senior, nonno dell’attuale Giovanni Motta, aveva pazientemente allestito: un bazar.
Il bazar Motta era veramente un bazar. Non si chiamava più così da tempo, ma non era per nulla cambiato, fino al momento in cui è diventato l’attuale libreria. Perdendo e guadagnando nello stesso tempo.
L’arco che oggi collega l’atrio con i libri in vendita al bancone della cassa, era una porta inaccessibile, che lasciava intuire i recessi di un misterioso e popolato retrobottega.
Nell’unico ambiente aperto al pubblico si fronteggiavano due pesanti banconi di legno con il piano in vetro, adibiti a vetrina. Entrambi i banconi, più un terzo che faceva da quinta, in fondo, avevano alle spalle alte scaffalature scure, per lo più occupate da stoffe, pur in un assortimento di altri articoli appartenenti all’intero campo delle categorie merceologiche esistenti in natura.

Incontrastata regina del bazar era la signora Marchese, moglie del Giovanni Motta fondatore.
Sempre più curva sotto il peso degli anni, vestita di nero, i capelli grigi raccolti in un tuppo eterno, conosceva ogni angolo del negozio e dell’animo dell’acquirente, peggio per lui se la richiesta non era sufficientemente chiara o decisa.
Con rapida ed efficiente alacrità, turbata solo dai furtarelli che bande organizzate di ragazzini in marcia verso la scuola o di ritorno, mettevano in pratica rischiando sgridate severissime (per quanto mi riguarda un uniposca arancione che avrei risarcito anni dopo a modo mio) riforniva i clienti di bottoni, cerniere, penne, soda caustica, calze, abiti, pennarelli, nastri, gomitoli, stringhe, cartoncino e qualsiasi altro articolo previsto dalla licenza di un bazar. Ovvero ogni oggetto. Poteva non essere disponibile al momento in negozio, sarebbe arrivato.
A settembre, invece, e per i mesi successivi, le pezze di stoffa lasciavano il posto alle pile di libri di testo, di quaderni, di diari.
Nella libreria Motta si ripeteva la stessa magia autunnale dei boschi.
Esattamente come i funghi, infatti, libri e affini, spuntavano nella frescura delle prime luci dell’alba dall’automobile di Pippo Motta, gestore e proprietario tra un Giovanni e l’altro, pazientemente parcheggiata davanti ai distributori catanesi sin dalle prime ore della notte. Le leggende metropolitane sulle attese notturne, giocate tutte sull’anticipare il diretto concorrente e accedere per primi alla distribuzione, non si contano, ma dicono di freddo e di termos di caffè. E di bastoni con i nodi, a quanto pare.
Al pomeriggio o di sera, in compagnia di mio padre, ricordo ripiani traboccanti di antologie spesse e profumatissime, di dizionari di lettere astruse. E poi il libro di storia in cui trovare le risposte alle tante domande poste dal libro di storia dell’anno precedente, le foderine al petrolio per salvaguardare l’ordine e l’estetica, la distrazione della scelta cruciale del diario giusto.
E file interminabili che avanzavano lentamente tra buoni, rimborsi, cedolini, liste da spuntare, “deve arrivare, ripassi domani, arrivederci”.
Un’oliatissima macchina da guerra, gestita con piglio militare (nessuno avrebbe potuto immaginare allora che, ancora troppo basso per emergere da dietro il bancone, c’era già il piccolo soldato Giovanni Motta al lavoro) che in poche settimane riforniva la metà e forse più della popolazione studentesca belpassese costringendo i pochi furfanti alla bugia in classe: “Prof il libro non è arrivato”. E se solo il professore avesse chiesto il nome della libreria ritardataria, sarebbero stati schiaffoni o pessime figure.
Ritengo che i Motta, al netto delle componenti affettive, non abbiano nostalgia per quegli anni.
La fatica di chi stava in fila durava anche un’ora, quella di ammansire la fila ogni giorno per mesi, durava e basta.
La scolastica, così si chiama questa particolarissima stagione per una libreria, oggi si affronta con strumenti diversi. Le liste dei libri da acquistare sono disponibili già alla fine dell’anno scolastico, esistono le prenotazioni, ci si organizza per tempo con rappresentanti e distributori. La fatica resta, ma è meglio ammortizzata.
Come allora però sono mesi assai particolari, in cui centinaia, migliaia, di libri impilati modificano l’assetto di un negozio e i sonni di chi quel negozio lo gestisce. Con la speranza, inconfessata, che possano quei libri tener svegli quanti più clienti.
Il bazar Motta col tempo è diventato altro.
Anni fa, quando Pippo Motta spuntava l’ultimo libro della lista dicendoti: “Abbiamo finito”, con una mano ti accarezzava la testa e con l’altra per festeggiare ti regalava un atlante Zanichelli.
Non l’avevo mai ringraziato prima di adesso.
(Ringrazio Car+C+8 Design per l'immagine) 

lunedì 16 agosto 2010

L'asilo del fumo. (Parte seconda)

Lo stesso fumo ( o quasi) gli stessi sogni e le stesse fantasie, le ricordo la sera del 17 ottobre 1997, cinque anni dopo.

Ero maggiorenne da una settimana (per i belpassesi affezionati al sacro, era l’ottava), i miei genitori in viaggio, dunque senza problemi di orario.

In una casa della IX traversa a levante, ancora una volta su sedili improvvisati, un cerchio.
Questa volta non siamo ragazzi, siamo compagni. Nell’aria c’è un’incosciente elettricità. Quella notte, il Collettivo politico Area, circolo esclusivissimo e quasi coincidente con il Partito della rifondazione comunista, occuperà la struttura devastata dell’asilo nido. Logo del gruppuscolo, stampato sull’unico volantino A5 di rivendicazione, un uovo in un portauovo minacciato da un cucchiaino. La fantasia può portare male, cantava il poeta modenese.
L’obiettivo è ambizioso ed ha anche valenza simbolica. Progettato e realizzato nella seconda metà degli anni settanta, l’asilo avrebbe dovuto accogliere (in teoria) molti di noi. Vent’anni dopo sembrava giusto risarcimento appropriarsene, per denunciarne il degrado e destinarlo a spazio di socialità giovanile. Le amministrazioni democristiane si succedevano senza apparentemente interessarsene, il nodo di collusioni e responsabilità troppo difficile da sciogliere. In più, dettaglio non da poco per pericolosi sovversivi dell’ultrasinistra locale, si vociferava insistentemente di una destinazione della struttura alla Misericordia.
Ulteriori indagini su cosa fosse e come si potesse realizzare questa socialità non vi furono, ma “scarpe rotte e pur bisogna andar”. Andammo. Una variante della sporca dozzina. Con noi un dirigente del partito, un compagno adulto, che ci avrebbe indicato il cammino.
Non ho molti ricordi di come arrivammo sul posto, ma sono quasi sicuro che andammo a piedi. Il nostro equipaggiamento consisteva di pinze, tenaglie, attrezzi vari che sarebbero serviti alla posa di una recinzione e alla sostituzione delle serrature con chiavi del popolo.
Questo il paradosso. Un’occupazione, in genere, prevede una violazione. Nel nostro caso la struttura era ampiamente violata, quindi avevamo il problema opposto. Non servivano cesoie per tagliare una recinzione, ma fil di ferro, rete metallica e tenaglie per ripristinarla. Non è un dettaglio insignificante come si vedrà dopo.
Mentre si procedeva, silenziosamente (più o meno), alla segreta manovra, pur ben illuminati dai lampioni della strada che nel frattempo era stata aperta perpendicolarmente a Via delle scuole medie e davanti a decine e decine di balconi dei palazzi di fronte, due fari nella notte spensero il nostro progetto.
Da una Fiat Uno, due carabinieri in borghese vistosamente distolti da altre occupazioni visti i loro abiti festaioli, intimarono il più banale dei “fermi tutti!”
Toni e facce, a molti note per posti di blocco e sequestri di motorini avvenuti in passato, sarebbero bastati, ma uno dei militi pensò bene di sottolineare l’ordine arma in pugno.
Assai vicini al prolasso intestinale, quasi ipnotizzati, deponemmo le armi (pinze, tenaglie) rimettendoci alle decisioni della Benemerita.
Nessuno guardò l’ora, quindi nessuno potrà smentirmi se scrivo che la gloriosa impresa si risolse in venti minuti. In realtà forse qualcuno l’orologio lo guardò (se lo vide) mentre la colonna si incamminava sotto un fitta pioggerellina verso la caserma. Il compagno anziano, forse memore di ben altre imprese, fu l’unico a incamminarsi in direzione opposta. Il seme della rivolta era salvo.
In fila indiana, seguiti dalle forze della controrivoluzione in macchina, riuscimmo a far sganciare un compagno poco desideroso di rivedere la caserma dei carabinieri e da nove, tornammo dieci piccoli indiani quando uno dei militi si unì a noi per scongiurare altre fughe.
Da Via delle scuole medie passammo per la XX Traversa (la più breve di tutte), poi dentro la Villa Comunale dove sfilammo sotto gli occhi increduli dei compagni che presidiavano i pochi stand della festa dell’Unità che era iniziata da qualche ora . Poi da lì, dopo brevi e fallimentari tentativi di resistenza passiva, conditi dalla bestemmia di un compagno (l’unico che avrà un capo di imputazione in più), passando per la Silva, arrivammo in caserma.
Il verbale ci contestava occupazione, danneggiamenti, resistenza a pubblico ufficiale.
In molti mesi di inutili firme e vani incontri in caserma, non si riuscì nemmeno a rinviarci a giudizio. Difficile contestare a chi andava per riparare l’intento di danneggiare.
I danni erano altri e non li avevamo fatti noi.
Quella sera, in caserma, eravamo tutti senza documenti, appresi il significato della parola sedicente.


Io ero il sedicente Giuseppe Piana. 

sabato 14 agosto 2010

L'asilo del fumo. (Parte prima)

La notizia era di quelle destinate a deteriorare la soglia dell’attenzione in classe per le restanti tre ore. Durante la ricreazione uno di terza parlò a noi di seconda (quelle differenze anagrafiche di pochi mesi che all’epoca delle medie contavano decenni) di un luogo quasi mitologico.
L’immagine che materializzarono le sue parole era quella di un fortino abbandonato, di facile conquista, colmo dei tesori a noi più cari: il fascino del proibito e il desiderio di avventura.
Con un fittissimo scambio di bigliettini che il nemico, l’assai miope professoressa di lettere, non intercettò, si decise un primo sopralluogo al suono della campanella.
Avevo già notato la meta della nostra esplorazione. Ai margini della strada che percorrevo ogni giorno, a venti metri dalla scuola. Una struttura bassa, di un piano, bianca, con le pareti scrostate e una decorazione di sottili linee parallele dipinte sulla facciata, finestre senza vetri, cancelli inesistenti, una vegetazione selvaggia intorno.
Al suono della campanella, saltando l’immancabile tappa al botteghino per comprare caramelle e gelatine dai colori improbabili e facendoci largo tra le auto ordinatamente imbottigliate, raggiungemmo quello che era, era stato, l’asilo nido. 
Anni dopo avrei saputo che non era mai entrato in funzione, quindi sarebbe più corretto dire quello che avrebbe potuto essere l’asilo nido del paese.
Eravamo in cinque, sei con la nostra guida, il ragazzo di terza già esperto del luogo. L’emozione si sciolse nella delusione.
 Il sole entrava netto dalle finestre divelte del prospetto sud. Il pavimento era interamente coperto da cocci di vetro che scricchiolavano sotto le scarpe. 
Varcato l’ingresso, attenti a non tagliarsi con il ferro arrugginito del portoncino, si entrava direttamente in una stanza enorme su cui si aprivano, allineate, molte porte. Porte che erano variamente decorate: scritte all’uniposca, buchi di calci, pugni, pietrate, piccole e grandi bruciature.
La guida si dedicò con perizia, seguito da due di noi, al tiro al bersaglio verso la lastra di vetro superstite di una finestra. Il rumore dei cocci infranti rimbombava nel vuoto assoluto del camerone. 
Anche le altre stanze avevano il pavimento vetrato, grossi buchi nei muri, tubi dell’impianto idraulico staccati, lavandini e water ridotti in pezzi, plafoniere penzolanti dal soffitto. Ovunque macerie, spazzatura. Un gatto morto rendeva inavvicinabile uno dei bagni con i water minuscoli, lasciati lì da chi non avrebbe saputo cosa farsene. Tutto il resto era stato diligentemente estirpato e portato via.
L’assalto all’asilo nido fu una delusione. Niente di diverso da ciò che si trovava abbondantemente nelle case di campagna e nelle masserie devastate che già praticavamo.
Continuammo a frequentarlo. Gli appassionati del genere si dedicavano coscienziosamente alla demolizione: fionde, pallonate, piccoli incendi esaltavano la loro opera, altri vi creavano nascondigli per il bottino di furtarelli scolastici o di fumetti che era meglio non portare a casa. Infine arrivarono i pacchetti da dieci di Merit e il luogo assunse i connotati del fumoir. In una classe, la più sgombra e meno cadente, creavamo un cerchio di sedili improvvisati e una dopo l’altra fumavamo, con boccate goffe e caricaturali (che non ci impedivano poi di vomitare) tutte le sigarette di un pacchetto comprato con i soldi di una colletta.
Ci sentivamo grandi, le nuvolette azzurrine, i cerchietti e le prodezze di chi già aspirava, il fumo che saturava la stanza, impregnava i nostri sogni e le nostre fantasie [...]

venerdì 23 luglio 2010

Belpasso, 23 Luglio 2010

Da bambini, alle elementari, dopo aver scritto in bella grafia “Belpasso”, seguito dalla data del giorno, la maestra dettava le nozioni fondamentali sul paese.
Nel 1988, a quanto risulta da un quaderno logoro di allora, Belpasso doveva essere un ridente paese alle falde dell'Etna (chi non ha sentito con sicura certezza questa definizione almeno una volta?) di undicimila abitanti. 
Vi si coltivavano mandorli, ficodindia, ulivi, viti, alberi da frutta. 
Aveva impianti industriali nel settore dei dolciumi (e per darcene prova si andava in visita di istruzione agli stabilimenti Condorelli, cui si accedeva da un vialetto alberato, a destra della sala ricevimenti) e in quello molitorio, che mai avremmo capito essere le cave in cui si estraeva e si macinava la pietra lavica.
La maestra dettava con voce limpida per farci distinguere bene sillabe e doppie:
“È’ stato fondato dopo il terremoto del 1693 che aveva distrutto Fenicia Moncada, il precedente paese, che a sua volta era stato costruito dopo la distruzione di Malpasso nel 1669.
Il simbolo del paese è la Fenice, un uccello mitologico capace di rinascere dalle proprie ceneri, proprio come aveva fatto il paese in più di un’occasione.”
La descrizione proseguiva con i riferimenti a S. Lucia, patrona del paese, alle principali feste, al noto carro armato del miracolo, quello del “compromesso storico tra Matrice e S. Antonio”.
Perché, mentre si iniziava a capire di greci e di romani, la mia maestra (e non ho motivo di dubitare sulle altre) sentiva il bisogno di parlarci di viti e di ulivi, di Fenicia Moncada e di Condorelli?
Il dettato, certo, aveva la sua funzione didattica, ma avrebbe potuto dettare un brano di letteratura per ragazzi o la storia dello sbarco dei Mille.
Non era ancora di moda l’attuale parola d’ordine dell’attenzione per il territorio, né si avvertivano venti autonomisti.
Lo faceva perché la scuola che aveva frequentato e nella quale trenta e più anni dopo insegnava, era molto attenta alla geografia. E non solo a quella fatta con le cartine mute o con la carta velina su cui riportare confini monti e fiumi, da colorare poi sul quaderno. 
A lei interessava darci delle coordinate per orientarci.
Insegnarci gli strumenti utili, stimolare l’osservazione, instillare un senso di appartenenza e di identità.
Facendoci conoscere in astratto il paese, ci dava le chiavi di lettura necessarie per comprenderlo nel concreto: il suo calendario (le feste e le stagioni), i suoi abitanti ( i mestieri, le ricchezze e le povertà), i suoi tesori (la terra, il paesaggio).

Sarebbe un esperimento interessante oggi, mettere insieme le pagine di quei quaderni belpassessi, le varie generazioni di temi, i dettati, i pensierini, per annotare le evoluzioni e scoprire variabili e costanti.

Non so, credo di sì tuttavia, se ancora oggi i bambini di Belpasso apprendano questi dati. 
Non quelli del 1988 ovviamente, anche perché il quadro è profondamente mutato.
Certo ancora adesso si inizierebbe scrivendo il nome Belpasso e la data. E poi?

È ancora ridente il paese? È meglio parlare di cittadina? Si è trovato un modo meno astruso per dire alle “falde” dell’Etna?
Olio, vino, mandorle, fichidindia, sono ancora frutti di questa terra? E, se sì, le loro produzioni sono aumentate come il numero degli abitanti? Le chiuse, gli appezzamenti che dai margini del quartiere S. Antonio arrivavano alla Dais devono produrne ettolitri e tonnellate se servono così tanti capannoni agricoli. No?
Torrette, muri di pietra a secco, terrazzamenti, tendono a scomparire. Ciò che un tempo era una risorsa per l’agricoltura, senza i quali era impossibile coltivare i terreni pietrosi, oggi potrebbe esserlo ancora, anche per il turista, per cultura, paesaggio, tipicità.
Le falde e le pendici, i fianchi delle colline sono sventrati e feriti dall’incapacità di programmare e dagli appetiti dell’oggi. I pochi resti degli insediamenti storici rimangono sepolti da rovi e lentisco, quando non spariscono sotto i denti delle ruspe.
Perfino la scacchiera di cui tutti si gloriano, amministratori in testa, si sta sfilacciando sempre di più, perdendo il suo senso, se non razionale, quanto meno estetico.
Condorelli di certo non è più in quel piccolo stabile a ridosso dei magnifici saloni. Ma oggi i saloni sono un supermercato e in quel vialetto, ne sono quasi certo, nessuno raccoglie più i funghi che spuntavano ai margini della stradella. 
Spero possa ancora sentirne il profumo il cavaliere.
Le cave continuano a estrarre e a macinare pietra, forse lo fanno anche dove non potrebbero, però grazie a loro quella che chiamano la città del tempo ritrovato, e che invece è un centro commerciale, è sorta, con tutta la sua imponenza. E ca va sans dire, la città cresce.
S. Lucia esce ancora due volte l’anno dalla sua cameretta per i tanti cittadini che la acclamano, ma è curioso che dopo trecento e più anni di protezione su questo paese, non sia ancora riuscita nel miracolo di aprire gli occhi ai suoi devoti.
In vent’anni il ridente paese è diventato la città che cresce. Ve ne siete accorti?

giovedì 22 luglio 2010

Sipario


Inauguro con molto piacere e con una certa emozione questa rubrica dedicata a Belpasso.

Ringrazio la redazione di Sciara che, nella persona di Antonino Recupero, mi ha proposto di mettermi alla prova scrivendo del paese, dei suoi luoghi, delle sue storie.


Ho scelto U viulinu di Peppi come titolo, perché ha in sé il principio che mi sono posto accettando la proposta. 
Peppi, naturalmente, è quel Giuseppe Vitaliti, rimasto nelle scarsissime cronache e nella leggenda paesane come Peppi i’ Mappassu *.
La sua foto mentre suona il violino è nell’immaginario dei belpassesi, quanto un’immaginetta sacra.
Della sua vita si sa poco e quel poco è bastato a renderlo personaggio. 
Di lui si ricordano pochi aneddoti, dai quali emergono la semplicità dell’uomo, la schiettezza (“Ma ricotta brigaderi"), la sensibilità, il disagio della vita per strada.

Doti che, non possedendo in quell’abbondante misura, proverò almeno a descrivere.

Il violino, che forse non sapeva suonare, è simile alla penna che presuntuosamente ho scelto come strumento. Altrettanto versatile, che è capace di incantare, così come di irritare.

Farò del mio meglio per non annoiarvi. Tra tutti gli esiti possibili credo sarebbe il meno buono.
Con una frequenza regolare, spero bimensile, la rubrica si occuperà dunque di storie belpassesi, correnti e passate, grazie al contributo dei pochi amici che con me hanno il piacere di chiacchierare e di condividere questo stravagante interesse per il ricordo, per la memoria e la trama di rette e di traverse intersecate da più di trecento anni.

Trattandosi di un rubrica ospitata da un blog sarà possibile pubblicare dei commenti. Non è mia abitudine sottoporli a vaglio preventivo, dunque saranno pubblicati automaticamente. 
Spero possano rivelarsi uno strumento utile e non una sgradevole occasione per fare pollaio. Tenetevi dentro i limiti del buon senso e della civile conversazione.

Buona lettura.


* "Una sera Peppi aveva fame, come sua abitudine vide che la porta della dispensa di proprietà di Don Pasquale Crispino, era aperta senza pensarci due volte entrò e siccome all'interno vi erano tantissime pezze di formaggio  ma soprattutto ricotta, cominciò a mangiare , Don Pasquale sentendo dei rumori e credendo di essere derubato, chiudette la porta a chiave e scappò di corsa a chiamare i carabinieri, ma il brigadiere arrivato sul posto , per lo stupore di tutti, trovò Peppi imbrattato di ricotta che mangiava, il quale sorridendo esclamò " Ma ricotta, brigaderi."  (http://web.tiscali.it/prolocobelp/peppi%20mappassu.htm)