venerdì 5 novembre 2010

La festa dei morti

Comando supremo, 4 novembre 1918, ore 12.
La guerra contro l'Austria - Ungheria che, sotto l'alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l'Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta.[…]

Per qualche anno, da bambino, avevo imparato a memoria il testo integrale del Bollettino della Vittoria.
Insana e patriottica passione che condividevo con Antonino Recupero, a quanto mi risulta.
Entrambi (prima lui, l’anno dopo io) fummo incaricati di leggere il testo durante la cerimonia annuale davanti al Sindaco e alle autorità. Inderogabili leggi non scritte prevedevano che la lettura fosse affidata a un pargolo in divisa scout. Probabile retaggio delle cerimonie del Ventennio in cui la lettura era affidata a un balilla, o forse perché la voce di un bambino in pantaloni corti a novembre, vibra come quella di Diaz nei vecchi altoparlanti delle radio a valvole.
Due decenni dopo, posso finalmente confessare che invidiai tantissimo Antonino.
Lui aveva letto in maniera marziale davanti al bronzeo monumento della XII Traversa, io dall’ambone della Chiesa Madre, come una qualsiasi preghiera dei fedeli, dato il nubifragio che aveva impedito la cerimonia in plein air.
La cerimonia al monumento dei caduti, forse per i programmi musical-risorgimentali della maestra Spina che contemplavano Mameli, Piave mormorava e Bella ciao, o per la lettura intensiva del libro Cuore Giunti che mi toccò in regalo, era molto emozionante.
Insieme ai pennarelli turbo color Giotto che i miei nonni mi regalavano, erano queste due cose a farmi pensare ai Morti e alla morte.
Non era tradizione della mia famiglia ricevere regali in quell’occasione.
Non avevamo morti che potessero mandarceli. Infatti iniziai ad averli da mio nonno materno quando morì suo padre e smisi di riceverli quando morì lui.
La prima settimana di novembre era interamente consacrata ai morti.
Il resto del mondo creato si accontenta del 2, commemorazione dei defunti, e del 4, anniversario della Vittoria, oggi anche del 31 ottobre, per via di Halloween, esempio concreto di come l’occupazione statunitense possa dirsi compiuta e irreversibile.
Anni fa, invece, i Morti, erano una festività composita che al suo interno aveva storie, sapori, concetti, lontananza, dolore, ricordo. Già dagli ultimi giorni di ottobre il clima risentiva di quest’atmosfera di festa malinconica.
I bar e le nonne si cimentavano nella preparazione delle ossa dei morti, biscotti onestamente appena commestibili, la cui durezza è proverbiale, ottimi come corpi contundenti nelle piccole risse tra bimbi.
Paese pirotecnico, dunque affezionato a botti e polveri piriche, Belpasso apriva la vendita di minerve, svedesi, miniciccioli e assicutafimmini (sic!) proprio ai primi di novembre, complici i due giorni di festività scolastica. Le operazioni di artiglieria si concludevano due mesi dopo, per l’Epifania, che notoriamente tutte le feste porta via.
Il cimitero, paradossalmente, prendeva vita proprio in quei giorni.
I sepolcri, per tutto l’anno aridi, polverosi e con i fiori rinsecchiti, brillavano per via delle grandi pulizie d’occasione e odoravano di fiori freschi.
I fiorai assecondavano il desiderio di riparazione dei tanti che si sentivano in obbligo di spartire mazzetti a zii, nonni, avi, cui per tutto l’anno al massimo avevano speso un “bonamma” o qualche “eterno riposo dona a loro Signore.” . E amen.
Le strade vicine al cimitero, già a partire dall’angolo tra Via Roma e u’ Stratuni (la IV Traversa lato di levante) erano punteggiate dai secchi azzurri colmi di crisantemi bianchi o gialli, gonfi come petti di colombi, che venditori improvvisati organizzavano per contendere clienti ai fiorai.
Poco oltre le colonne bianche del cimitero, a mo’ di altare della patria in sedicesimo, i necrofori posizionavano una bara vuota e la corona di fiori del Comune e dell’Associazione nazionale reduci e combattenti, in memoria del milite ignoto (nel caso specifico assente più che ignoto). Mi stupivo sempre del fatto che moltissime persone staccavano un fiore dal proprio prezioso mazzo per omaggiare una bara vuota. Oggi, sapendo che l’omaggio andava alla memoria e al ricordo dei molti mai più tornati dal loro unico viaggio fuori dalla Sicilia, mi commuovo.
Allora, invece, assolta rapidamente la distribuzione di preghierine davanti a ovali ceramizzati che ritraevano parenti mai conosciuti, ma cui pian piano si imparava a voler bene, l’attrazione principale erano i due grandi ossari poligonali. I più temerari si avventuravano a sbirciare affacciandosi dal foro di apertura, da cui nitidamente si vedevano cataste di crani, e ossa assortite.
Altrettanto gettonata nell’hit-parade dark di noi fanciulli erano i sepolcri contenenti frasi, simboli e richiami horror del tipo: "Ricordati che devi morire", "Tutto finisce", "Fummo come voi sarete come noi". Simpatici memento mori che, ovviamente, abitavano i nostri incubi per i giorni successivi.
"Due cose belle ha il mondo: amore e morte". E non serve essere romantici per cogliere il senso del pensiero di Leopardi.
Sono stati versati litri di inchiostro e pubblicate centinaia di pagine sul rapporto tra Sicilia e morte, sul lutto, sul concetto di memoria dei defunti nella società rurale.
In effetti è difficile trovare altrove un legame tanto atipico tra il mondo dei vivi e quello dei morti, così intriso di greci di arabi e di magia.
La cesura del passaggio non sembra mai del tutto completata, la separazione fisica incide le carni dei vivi e si protrae nel lutto perpetuo e nel nero delle vesti, o dei bottoni per uomo, ormai quasi scomparsi, da appuntare al bavero della giacca.
Tutto sommato era una delle feste più belle.
Con generosa affettuosità, erano quelli che erano andati via a invitarci e a spedirci doni.
"Celeste è questa
corrispondenza d'amorosi sensi,
celeste dote è negli umani."
(Ringrazio Car+C+8 Design per l'immagine)