La cosa, ridicola già allora, e suppongo da molto tempo
prima, era che la stazione di Belpasso si trovasse a dieci km da Belpasso, in
un’appendice a valle ripartita e assegnata tra quattro comuni e che oggi è al
centro di una pittoresca disputa territoriale.
Il signor Bassini, rosso e baffuto autista, con occhiaie e
sigaretta d’ordinanza, ci accoglieva bonario, con la sua aria da Alberto
Castagna delle pendici etnee, e ci depositava dolcemente nel piazzale
antistante la stazione di Belpasso-Camporotondo, nonostante la navetta avesse
la dicitura Belpasso-Piano Tavola. Misteri della topografia, Bassini non aveva
certo sbagliato strada.
La strada, morti violente incluse, è poco differente da
quella attuale: tornanti tra le chiuse nella prima parte, un lunghissimo
rettilineo che dalla Dais giungeva ai
binari attraversando sciare, capannoni e frantoi, gli stessi che avevano divorato monte Cenere e la sua storia, trasformandolo in calcestruzzo e villette abusive.
La stazione, lì dal 1895 e l’annesso chiosco di ristoro,
coincidevano con l’idea che avevo allora (e in parte oggi) di Piano Tavola.
Il chiosco di Orazio Scalia soprattutto. Assai meno cabinato
di oggi, il ciospo poteva vantare un
buon caffè, ottime bevande, un bellissimo acquario e, più di ogni altra cosa, l’inesauribile
estro del capopopolo Araziu.
Affabile e gentile, con lo sguardo pulito, il baffetto mai
domo e una dose infinita di battute divertenti e di storie avvincenti.
Lo ascoltavo con piacere, già da bambino, quando di ritorno
da qualsiasi viaggio fuori porta, la sosta da lui era obbligatoria per un’amarena
con frutta o un seltz limone e sale.
Scalia, allora esponente della Democrazia Cristiana (cfr. commenti) e (quasi) viceré di Piano Tavola, intratteneva
per ore il pubblico costituito soprattutto da operai, agricoltori, viaggiatori,
bigliettai e autisti.
Piano Tavola per me si esauriva in quei pochi metri quadrati.
Piano Tavola per me si esauriva in quei pochi metri quadrati.
Certo anche allora c’era dell’altro. Qualche macelleria, un
barbiere che aveva inalberato l’insegna Salone, forse per confondersi meglio
con l’aria da paesino del west americano che la frazione mantiene anche oggi,
la chiesa senza facciata, qualche fontanella sotto il livello della strada per
sfruttare meglio il principio dei vasi comunicanti.
I miei ricordi si limitano a queste poche cose.
Forse con l’unica eccezione delle scuole elementari di via
Piersanti Mattarella, in cui un Giuseppe Piana mio predecessore (don Pippinu)
spadroneggiava incontrastato in qualità di capo ras dei bidelli.
La scuola, oggi intitolata al papa polacco, suppongo perché
madre Teresa di Calcutta, morendo prima, avesse già avuto in dote il glorioso “Plesso
centro” di piazza Duomo, disponeva di un campo da tennis regolamentare in cui
il nonno bidello tentava di avviare me e mio cugino Massimo allo sport.
Evenienza sempre piacevole nei miei ricordi, se si esclude
un match micidiale giocato a mezzogiorno sotto il sole di giugno e con un paio
di Superga ai piedi. Non avevano ancora inventato i fantasmini. "e l' modo ancor m'offende".
Lì la littorina,
con i suoi sedili di similpelle che rendevano speciale l’aria già densa di
umori e odori di remoti comuni montani, ci avrebbe condotto con “fascistissimo
impetuoso incedere” nel cuore di Catania, dove sarebbero iniziate le nostre
giornate alla volta delle scuole o dell’avventura metropolitana.
C’erano gli aspiranti periti agrari (non da soli) che per
primi si fermavano a Cibali, anche se
un oscuro borrellese frequentatore dell’odontotecnico ci lasciava già a Nesima; poi scendevano, alla stazione di
Borgo i futuri geometri e i futuri
ragionieri del Vaccarini e del De Felice, più tutti i caliatori (in molti casi le
caratteristiche combaciavano perfettamente) sfaccendati sia occasionali sia
professionisti. Infine, a corso delle Province, io e pochi altri in direzione Cutelli.
La fauna giovanile che popolava i vagoni di quella ferrovia
a scartamento ridotto era variegata.
Partendo da Riposto e cingendo l’Etna per 111 km totali, la Circumetnea ,
(a’ Ciccum) metteva insieme brontesi,
adraniti, biancavilloti, paternesi, e così via, rigidissimamente
compartimentati per etnia, con reciproche differenze e diffidenze.
La sezione belpassese, come le altre, era a sua volta
suddivisa per età in matricole e anziani.
Il rito di iniziazione, denominato in maniera poco originale
vattiu (battesimo), consisteva in una
carramata o’ scuru, altro modo poco
originale per indicare una pioggia di sberle assortite, da ricevere sotto la
protezione di un giubbotto e, naturalmente, di un padrino, presunto curatore dei tuoi interessi,
Il mio padrino, cui da allora sono legato per vincolo
indissolubile, fu un borrellese, cui ancora voglio bene, che portava il
soprannome di Trappola.
L’esperienza non fu eccessivamente traumatica, ben peggiori
erano gli analoghi riti da subire nelle rispettive scuole, ma, per sommo
accanimento del destino, lo stesso anno cambiai scuola alla fine del primo
quadrimestre, dunque le carramate
furono tre (una sulla littorina, due a scuola).
Perfino la Costituzione prevede un premio per i capaci e i
meritevoli, non mi sono lamentato.
(Ringrazio Car+C+8 Design per l'immagine)
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